Non chiamiamoli più lavoratori “dipendenti”
Le parole sono importanti e se vogliamo che i lavoratori siano consapevoli e responsabili, non possiamo più chiamarli “dipendenti”.
Non mi piace la parola “dipendente”. Mi fa pensare a qualcuno che necessita sempre di qualcun altro per poter fare, per trovare risposte, motivazione, modalità operative, obiettivi, progetti da realizzare, persino i sogni a volte.
Cerco di eliminare la parola “dipendente” da ogni documento aziendale sul quale mi trovi a lavorare.
Vorrei che nessuno si sentisse di dover “dipendere” da altri per poter realizzare qualcosa e tantomeno per dare un senso a ciò che fa.
Ovviamente mi sto riferendo all’ambito lavorativo. In una famiglia, in una collettività, l’interdipendenza è altro e prevede che ognuno metta una parte di sé, che la condivida, per generare qualcosa di più grande e di comune a tutti.
La “dipendenza” dovrebbe quantomeno essere una scelta consapevole.
Oggi abbiamo bisogno, prepotentemente, di persone consapevoli. Consapevoli di ciò che sono, delle proprie competenze, della propria professionalità, delle proprie caratteristiche uniche, dei propri bisogni, dei propri sogni, così come dei propri limiti e dei propri personali compromessi ai quali non si dovrebbe mai scendere.
Le aziende oggi sono, a torto o a ragione, il trait d’union tra il pubblico e le persone. Sono il sistema che può contribuire a regolare ciò che non si riesce a regolare pubblicamente. Sono mediatori di cultura, educatori di stili di vita, regolatori di tempi e luoghi. Possono influenzare persino l’istruzione, ponendo una domanda specifica a tutto il mondo della formazione.
Non è una novità di oggi. I grandi imprenditori, come Olivetti ad esempio, hanno interpretato questo ruolo già decenni fa, creando città attorno alle fabbriche e luoghi di lavoro a misura di persone e di famiglie.
Oggi l’emergenza che stiamo vivendo non ci sta chiedendo solamente di essere sedata e domata da un vaccino. La richiesta è di andare oltre, è di comprendere ed interpretare ciò che stava già accadendo ante Covid.
Vi ricordate? Si parlava di flessibilità, di conciliazione vita-lavoro… e di welfare aziendale… perché l’insostenibilità di molti aspetti delle vite delle persone e delle famiglie era arrivata al limite.
La collettività è l’insieme delle persone e le persone formano un tutto. Oggi quelle persone hanno bisogno, più che mai, di essere consapevoli, di rendersi responsabili di una sostenibilità di vita, di avere e di dare un senso. Lo devono a sé stesse e ai propri figli, che forse pagheranno un prezzo troppo alto, solo per essere bambini e ragazzi in questo tempo.
Questa evoluzione, questo passaggio prima tutto culturale dell’organizzazione lavorativa verso una consapevolezza individuale e collettiva, è un ulteriore sforzo che gli imprenditori dovranno fare per primi. Credo tuttavia che per tutti gli imprenditori, quelli veri, quelli con la “I” maiuscola, non sarà uno sforzo, forse sarà solamente uno spostamento di lato, per superare l’ostacolo e continuare nella strada che avevano intrapreso all’inizio, quando avevano deciso di iniziare a lavorare alla realizzazione del proprio sogno.